Ci sono giochi che scelgono la via sicura, seguendo formule rodate, e poi c’è Moros Protocol, un titolo che sembra nato per scuotere il giocatore e trascinarlo in un vortice di angoscia, sopravvivenza e brutalità viscerale. Non è un prodotto pensato per tutti: è un’esperienza che sporca le mani, che ti mette contro la paura del buio e il peso di ogni scelta, anche la più banale.
Fin dai primi minuti ci si trova prigionieri di una nave fantasma nello spazio, l’Orpheus. Le sue lamiere arrugginite scricchiolano come ossa vecchie, i corridoi stretti diventano trappole claustrofobiche, e l’unico filo logico è una voce incorporea che più che guidare, confonde. Non c’è un racconto lineare, ma un mosaico di indizi, visioni e frammenti che vanno decifrati, trasformando la narrazione in un enigma psicologico che perseguita il giocatore.
Il combattimento è il cuore pulsante del gioco, ma non quello “sparatutto da corridoio” che ci si potrebbe aspettare. In Moros Protocol le armi pesano, hanno inerzia, costringono a ragionare prima di ogni colpo. Non si sopravvive premendo un grilletto a raffica, ma combinando riflessi, sangue freddo e improvvisazione. Il bello è che ogni run riscrive le regole: potenziamenti, modifiche e nuove armi cambiano continuamente il ritmo, obbligando a imparare di nuovo, ad adattarsi, a reinventarsi. È un gioco che insegna la resilienza più che la potenza.

Il suo lato roguelite non è mai punitivo in senso sterile: morire non è perdere, ma capire. Ogni caduta diventa un tassello di esperienza, ogni ripartenza un’occasione per andare più a fondo. La combinazione tra ambienti disegnati a mano e generazione procedurale rende l’Orpheus un labirinto vivo, che muta e sorprende. Non sapere cosa ti aspetta dietro l’angolo è la miccia che tiene sempre alta la tensione.
L’estetica merita un discorso a parte. La scelta del low-poly moderno, con texture pixelate che richiamano i classici anni ’90, non è un vezzo nostalgico ma un colpo di genio. Le luci dinamiche e le ombre soffocanti trasformano quella semplicità grafica in un’arma psicologica: il giocatore è continuamente ingannato da ambienti che sembrano familiari ma che nascondono una minaccia costante. Il tutto amplificato da un sound design crudele, fatto di urla, metallo che geme e silenzi improvvisi che pesano più di mille rumori.

E poi c’è la cooperativa drop-in, un’aggiunta che non snatura l’esperienza ma la trasforma. Condividere la paura con un amico non la rende più leggera, la rende più intensa: si crea una complicità fatta di panico improvviso e risate isteriche, di strategie improvvisate e fallimenti condivisi. È un modo diverso di vivere lo stesso incubo, più accessibile ma non meno inquietante.
Alla fine, Moros Protocol non è solo un gioco: è un patto con il giocatore. Ti chiede di accettare il fallimento, di convivere con l’oscurità, di spingerti oltre la frustrazione per scoprire cosa c’è dietro l’ennesimo corridoio buio. In cambio ti restituisce un’esperienza intensa, spietata e sorprendentemente gratificante, un mix di retrò e moderno che si ritaglia uno spazio tutto suo in un panorama ormai saturo di cloni senz’anima. Moros Protocol è il ricordo dei vecchi incubi, vestito con la brutalità del presente.